INCHIESTA CORONAVIRUS – LE OLIMPIADI NEGATE

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di ENRICO FORTUNA

Quest’anno la fiamma olimpica resterà malinconicamente spenta: la XXXII Olimpiade di Tokyo, per la prima volta nella storia dopo 124 anni, è stata rinviata di un anno a causa di una pandemia mondiale indotta dal Coronavirus.

Alla fine si è deciso per il rinvio nonostante il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) abbia temporeggiato tenacemente e, diciamolo, irresponsabilmente, prima di prendere la drastica decisione, sotto la pertinace pressione dell’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità), per salvaguardare la salute degli atleti e della comunità internazionale. In passato, i Giochi moderni erano già stati soppressi in tre occasioni, senza contare i diversi boicottaggi, le rinunce e i vari casi di isolazionismo dovuti più che altro a ragioni politiche.

Esaminiamo le cause e gli scenari storici che portarono a tali cancellazioni. Dopo la rinuncia di Roma nel 1908 per insanabili divergenze tra il Governo e il Comitato Sportivo Italiano, Berlino, candidata con Budapest e Alessandria d’Egitto nel 1912, otteneva il diritto ad ospitare i Giochi della VI Olimpiade con unanime designazione. Il kaiser prussiano Guglielmo II, inquietante analogia di ciò che sarebbe accaduto vent’anni dopo per i Giochi disputati poi a Berlino, coglieva al volo l’occasione per propagandare l’efficienza del suo Stato, realizzando impianti sportivi avveniristici per l’epoca, con un’organizzazione altamente qualificata degli allenamenti. Guglielmo II non fece i conti, però, con la situazione già esplosiva nei Balcani, che detonò il 28 giugno 1914 con l’attentato a Sarajevo dell’Arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, la quale, di fatto, scatenò la I° Guerra Mondiale.

Nonostante la dichiarazione di guerra della stessa Germania e la minaccia di espulsione dei membri tedeschi da parte del Comitato Olimpico, Guglielmo II rassicurò lo stesso CIO, che proprio nel 1915 aveva fissato la sua sede in Losanna, ritenendo le ostilità esser di breve durata e non rinunciando, pertanto, all’organizzazione dei Giochi.

In tutto questo caos, quale posizione assunse il presidente del CIO, il barone Pierre De Coubertin? Nel 1915 il nobile francese, chiamato alle armi, seppur con un incarico al Dipartimento dell’Informazione del Ministero della Guerra, chiese di rinunciare “pro tempore” al suo mandato di Presidente, dal 1916 al 1919, in favore dell’amico barone Godefroy De Blonay, perché, a suo dire, “un militare non può guidare le sorti dello sport olimpico”. In pieno conflitto mondiale, il CIO si rese finalmente conto dell’impossibilità materiale di far svolgere i Giochi e ne dichiarò l’annullamento, sancendo che, comunque, un’Olimpiade poteva anche non esser celebrata ma il suo numero ordinale doveva seguire la precedente edizione, nel rispetto della tradizione inaugurata dall’antica Grecia.

L’armistizio ratificato l’11 novembre del 1918 che pose fine alla “Grande Guerra” si portò dietro una lunga scia di sangue, che coinvolse inevitabilmente un centinaio di atleti protagonisti delle precedenti edizioni dei Giochi, tra cui il tedesco Hans Braun (medagliato in atletica leggera nel 1908 e 1912), perito appena un mese prima della dichiarazione di pace. La bandiera olimpica con i 5 anelli simbolo dei continenti affratellati, nata beffardamente solo 2 anni prima, rimase purtroppo nel cassetto, perché la “VI Olimpiade”,  i giovani furono costretti a “disputarla” eufemisticamente nel sangue e nel fango delle trincee!

Nella seconda occasione di rinuncia inerente le Olimpiadi del 1940, l’intervallo temporale tra le edizioni fu più lungo del precedente, ben 12 anni di assenza dal 1936 al 1948. Proprio al tramontare del 1936, il Giappone vedeva assegnarsi i Giochi prevalendo su Helsinki per pochi voti. Il 2 settembre 1937, prima del conflitto, De Coubertin, sulla soglia della povertà e in piena disperazione per problemi familiari, stramazzava al suolo nella sua Ginevra  vittima di un infarto.

Nel 1938, il suo successore Henry de Ballet Latour, a causa della politica espansionistica del Giappone nei confronti della Cina, ritenuta troppo aggressiva, seppur rassicurato dall’Imperatore Hiroito, appoggiato dall’autorevole parere del presidente americano Franklin Delano Roosevelt, decise di far decadere la candidatura nipponica in favore di Helsinki. Che questa edizione fosse nata sotto una cattiva stella si evinse nel 1939, quando, con l’invasione della Polonia da parte della Germania, scoppiò, di fatto, la II° Guerra Mondiale. A sua volta Helsinki, nonostante il cauto ottimismo iniziale, avendo finanche fissato le date di apertura e chiusura dei Giochi, fu costretta a rinunciare per l’invasione dei Sovietici, in quella che sarà chiamata la “Guerra d’inverno” e per le concomitanti invasioni naziste di Norvegia e Danimarca.

La XII Olimpiade viene ufficialmente cancellata dal CIO il 2 maggio 1940, pochi mesi prima del suo inizio. Intanto nonostante il dilagare della guerra, lo stesso Comitato Olimpico, come se nulla stesse accadendo intorno a sé, continuava a lavorare per la designazione dei Giochi del 1944, ricevendo le candidature di città quali: Budapest, Losanna, Helsinki, Atene, Montreal, Roma e Londra (cui furono assegnate), con l’aggiunta successiva di Detroit. Ma l’escalation bellica sempre più cruenta, estesasi ormai globalmente, alla quale si aggiunse nel 1942 la morte del Presidente del CIO Latour, sostituito pro tempore dal vice Sigfrid Edstrom, porterà nel 1944 alla cancellazione definitiva anche della XIII Olimpiade.

Non si parlerà più di Giochi Olimpici fino al 1946, a conflitto ultimato, quando il CIO riassegnerà i Giochi alla città di Londra falcidiata, giacente ancora tra fumanti macerie, che l’avrebbe spuntata solo nel 1945, a poche ore dalla cessazione del fuoco fra gli alleati americani e i giapponesi.

Quasi un migliaio di atleti che parteciparono alle precedenti Olimpiadi persero la vita nel corso della guerra. Secondo accurate ricerche si ritiene che proprio un atleta polacco possa essere stato, nel settembre del 1939, la prima vittima (il maggiore Jan Wroszek, olimpionico ai Giochi di Berlino del 1936 nella gara di Tiro al Volo, che, ironia della sorte, gareggiò contro tiratori tedeschi). Tra gli innumerevoli caduti, ricordiamo buona parte della squadra olandese di ginnastica (medaglia d’oro ad Amsterdam 1928), perita con i familiari nei campi di sterminio nazisti o la squadra di pallamano tedesca (medaglia d’oro nel 1936), quasi completamente annientata tra il 1941 e il 1944 e il famoso tedesco Lutz Long (ricordato per il suo epico duello nel salto in lungo, e per la sua amicizia, con Jesse Owens che suscitò il profondo sdegno di Hitler nel 1936), caduto in Sicilia nel 1943 per le ferite riportate in battaglia.

Anche l’Italia purtroppo pagò inevitabilmente il suo tributo di vittime “olimpiche”: Paolo Salvi (medaglia d’oro a squadre in ginnastica a squadre nel 1912 e nel 1920), Silvano Abbà (medaglia di bronzo nel pentathlon nel 1936, morto nel 1942 guidando il suo plotone in Ucraina lungo le rive del Don), Erminio Dones (olimpionico di canottaggio nel 1920).

Per concludere, pur non osando minimamente accomunare le cause che hanno portato nel secolo scorso all’annullamento dei Giochi, dove milioni di persone persero la vita (in maggioranza civili e giovani soldati precettati e buttati allo sbaraglio), con le ultime appena rinviate, è però doveroso fare un’amara riflessione su come i tempi siano drasticamente cambiati.

Infatti, attualmente la cancellazione di un’Olimpiade è un colpo al cuore non solo allo Sport ma soprattutto al Leviatano 2.0 che lo ha inglobato inesorabilmente dentro di sé, costituito da voraci partners commerciali e lobbies tentacolari, portatori di molteplici interessi politici ed economici, per non parlare del doping.

Lo Sport è ormai sempre più lontano dagli utopistici ideali del barone De Coubertin, proclamati profeticamente quasi un secolo fa: “Lo spirito olimpico cerca di creare uno stile di vita basato sulla gioia di uno sforzo, sul valore educativo del buon esempio e il rispetto universale dei principi etici fondamentali dei Giochi creati per l’esaltazione e la glorificazione del singolo atleta. Il giorno in cui uno sportivo smetterà di pensare alla felicità che un suo sforzo gli procura, (…) il giorno in cui lascerà che l’interesse prenda sopravvento, in quel giorno i suoi ideali moriranno”.