Il CASO GEORGE FLOYD

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«Lasciatemi, non riesco a respirare». Queste le ultime parole pronunciate prima di morire.

Lui si chiamava George Floyd afroamericano di Minneapolis, ed è morto lunedì scorso mentre era sotto custodia della polizia.

Dalla ricostruzione è emerso che in quel giorno alcuni agenti erano stati allertati sulla presenza di un uomo sospetto, George Floyd per l’appunto, di 46 anni, seduto in un’auto, che sembrava sotto l’influenza di sostanze stupefacenti. Gli agenti sono intervenuti perché Floyd aveva cercato di usare un documento falso in un minimarket.

Giunti sul posto gli hanno intimato di scendere dall’auto, ma l’uomo ha cominciato ad opporre resistenza. Gli agenti lo hanno così bloccato a terra e, mentre cercavano di ammanettarlo, uno di loro (un poliziotto bianco) gli ha tenuto premuto il collo con un ginocchio per almeno sette minuti. Non ha allentato la presa neanche quando George Floyd sembrava aver perso i sensi, nonostante alcuni passanti lo implorassero di controllargli il battito cardiaco, mentre altri filmavano cinicamente la scena. Poi arriva un’ambulanza ma è troppo tardi. Morirà poco dopo. L’autopsia ha purtroppo confermato la morte per asfissia. Gli agenti coinvolti sono stati sospesi e la polizia ha avviato un’indagine.

Dimostranti vicino la “Casa Bianca”

Centinaia di persone oggi, come nei giorni scorsi, sono scese in strada a Minneapolis e in varie città americane in segno di protesta. Le manifestazioni inizialmente si sono svolte in maniera pacifica, persino davanti la “Casa Bianca”, poi la violenza è esplosa un po’ ovunque, vetri rotti, sassi scagliati contro le auto della polizia, incendi.

In America ci si interroga per l’ennesima volta sul perché alcuni poliziotti, bianchi per lo più, siano così violenti con le minoranze, soprattutto quella afroamericana e sulla lezione troppo presto dimenticata del movimento” Black Lives Matter”, «la vita dei neri conta». Un movimento internazionale, nato all’interno della comunità afroamericana, impegnato nella lotta contro il razzismo, perpetrato a livello socio-politico verso le persone di colore.

Per avere un quadro completo ed obiettivo dell’accaduto, occorre fare una seria analisi sul fenomeno, riportando alcune statistiche.

La drammatica morte di Floyd ha riacceso i riflettori su un fenomeno che rappresenta una delle “principali cause di morte” per gli americani di giovane età, soprattutto tra quelli di colore. Secondo uno studio del Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America  – periodico ufficiale della National Academy of Sciences (NAS) – essere uccisi durante un arresto da parte di un agente di polizia rappresenta in Nord America la sesta causa di morte per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 29 anni appartenenti a qualsiasi gruppo etnico: il rischio annuale calcolato dallo studio è di 1,8 decessi per 100.000 persone. Gli uomini neri hanno circa 2,5 volte più probabilità di essere uccisi dalla polizia nel corso della vita rispetto agli uomini bianchi. Le donne nere hanno circa 1,4 volte più probabilità di essere uccise dalla polizia rispetto alle donne bianche.

I dati dello studio, in realtà, non differenziano tra le uccisioni che, a seguito delle indagini, vengono poi ritenute “giustificate” e quelle che, invece, non lo sono. Secondo i dati dell’FBI, che pure vengono ampiamente ritenuti incompleti, tra le 400 e le 500 morti delle circa 1000 provocate ogni anno da agenti di polizia ricadono nella prima categoria. Ma secondo il sito mappingpoliceviolence.org, gli agenti che vengono accusati o condannati per questi eventi sono una nettissima minoranza: il 99%, infatti, non riporta accuse di tipo penale. (Fonte: Giulia Pozzi “Che cosa dicono le statistiche sugli afroamericani uccisi dai poliziotti”)

Dunque, che i poliziotti statunitensi di ogni colore – bianchi, neri, gialli, rossi e latinos – si mostrino più aggressivi con gli afroamericani che con gli altri cittadini americani, è un fatto segnalato dai numeri. Ma basta questo dato per accusare di razzismo la polizia americana?

Direi di no, se si tiene conto di un’altra statistica: a Ferguson, a Cleveland e a Phoenix, ad esempio, agenti delle forze dell’ordine hanno sparato a neri disarmati (il primo e il terzo stavano commettendo un reato, il secondo era un ragazzino che stava comprando una pistola giocattolo), ma il 42% di coloro che sparano a poliziotti negli Stati Uniti e di cui si riesce ad accertare la razza, risultano essere neri. Le forze dell’ordine mostrano pregiudizio verso gli afroamericani, ma solo perché l’esperienza gli dice che mediamente sono più pericolosi degli altri gruppi di popolazione. Lo confermano anche gli organi della giustizia americana, che mandano dietro alle sbarre una percentuale di afroamericani molto più alta della percentuale di bianchi e di americani di tutte le razze: secondo le stime più favorevoli, il tasso di incarcerazione dei neri è del 2,2 per cento, mentre quello della popolazione generale è dello 0,7 per cento (fra i bianchi è lo 0,4).

Possiamo discutere le cause del maggior tasso di criminalità dei neri rispetto alle altre componenti della popolazione statunitense, possiamo attribuirlo a ingiustizie sociali e ad emarginazione, frutto di atteggiamenti razzisti verso i neri, al peso della storia e agli ambienti urbani dove tanti appartenenti a questa minoranza nascono e crescono, ma resta il fatto che il poliziotto medio non ha torto quando teme un atto aggressivo da parte di un nero più di quanto lo tema da parte di un bianco. Più che denunciare il razzismo, bisognerebbe concentrarsi sulle condizioni di vita degli afroamericani, sulle criticità che dipendono da loro stessi e su quelle che dipendono dalla società intera. (fonte: Rodolfo Casadei “I poliziotti americani non hanno tutti i torti”)

Tirando le somme, la questione ha la sua complessità, come abbiamo visto, due però sono le certezze che possiamo ricavare dall’accaduto, la prima: George è morto per mano di un poliziotto, e questa morte poteva essere evitata, non possiamo che aspettare la giusta e dovuta punizione per il suo carnefice, prevista dalle autorità competenti; la seconda, è che le risposte violente, di questi giorni, di alcuni cittadini americani sono ugualmente ingiustificate, non si può manifestare contro un atto violento, utilizzando lo stesso comportamento.

Altre sono le strade da ricercare per fronteggiare questa problematica e una parte dell’America le ha usate: le manifestazioni pacifiche per onorare l’ingiusta morte di George e le scuse sentite di alcuni poliziotti americani. Questa è l’America che ci piace!