HONG KONG IN RIVOLTA: LA STORIA DI UN’ASPRA TENSIONE

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di GIORGIO LONGOBARDI

Accordi e disaccordi viaggiano sulla medesima lunghezza d’onda esistenziale, quasi a voler dimostrare l’imprescindibile varietà di un moto perpetuo capace di confermare, smentire e rinsaldare determinate certezze in nome della più pura e semplice verità. Tuttavia, tale adagio – che ben si presta anche ad altre tipologie di scenari – non sempre trova i favori dell’interlocuzione critica; anzi, spesso e volentieri, si muta in un gravoso innesco foriero di stravolgimenti e perdite ad ampio respiro che, come nel caso di Hong Kong e della sua rivolta, raggiungono derive raccapriccianti.

Hong Kong: cronaca di una rivolta annunciata

La crisi della regione amministrativa speciale della Cina dura da cinque mesi. A far scoccare la scintilla della protesta è stato un emendamento alla legge sull’estradizione che, qualora fosse stato approvato dal Parlamento, avrebbe dato il via libera ai processi nella Cina continentale per i cittadini accusati di alcuni crimini gravi come stupro e omicidio. Un’autentica innovazione, visto e considerato che a Hong Kong vige l’estradizione basata su accordi bilaterali con venti paesi; tra questi, però, non figurano né la Cina continentale, né Macao, né Taiwan.

La patria delle lingue formosane ha ispirato, insindacabilmente, l’elaborazione dell’emendamento in questione poiché scenario di un omicidio – da parte di un 19enne originario di Hong Kong – risalente al febbraio del 2018. Trovatasi dinanzi all’opposizione della predetta legge, è stata invocata una proposta di modifica della stessa capace di accendere gli animi, in primis quelli dei movimenti per i diritti umani. Stando, infatti, a quanto sostengono quest’ultimi, l’emendamento sarebbe una manovra di facciata per consentire a Pechino di mettere a tacere i suoi “oppositori politici” adottando accuse false. Il 12 giugno sono iniziati, così, i primi scontri tra polizia e manifestanti; e la guerriglia urbana che ne è seguita ha attratto l’attenzione dei media internazionali, attenti a documentare la lunga scia di sangue e violenza che ha provocato centinaia di feriti e ben due morti.

Le ripercussioni politiche ed economiche

Lo scorso 24 ottobre, la governatrice di Hong Kong Carrie Lam (complice, molto probabilmente, anche un drastico calo del consenso popolare) ha deciso di ritirare in maniera formale l’emendamento sull’estradizione. Una mossa in grado di smuovere persino il presidente Xi Jinping, il quale ha dichiarato che la rivolta in atto rappresenta un crimine radicale e violento votato a scompaginare l’ordine sociale. Ad ogni modo, saranno le imminenti elezioni per scegliere i nuovi rappresentanti dei consigli distrettuali a delineare ulteriormente la situazione. Ad alcuni candidati pro-democrazia (come l’attivista Joshua Wong) è stato impedito di candidarsi; ragion per cui, serpeggia un enorme timore che potrebbe condurre all’annullamento, o al rinvio, delle elezioni a data da destinarsi.

Per quanto riguarda, invece, il lato economico, Hong Kong è in piena recessione. Tutti i dati sono in negativo, con un calo del turismo stimato intorno al 40% e una previsione della contrazione del PIL pari all’1,3%. Una panoramica preoccupante per la quarta piazza finanziaria del mondo, dove i grandi brand si leccano le ferite e corrono ai ripari. Gli Stati Uniti, da par loro, restano alla finestra, aspettando il momento opportuno per far valere il proprio potenziale capitalistico attraverso il noto spessore retorico da salvatore autoreferenziale. Insomma, un mosaico ad alta tensione in cui la guerra dei poveri sembra, come di consueto, l’indicatore più suscettibile a poche variazioni di sorta. D’altro canto, cedere un po’ di sé per il bene comune è una merce in via di estinzione. E soltanto chi è dotato di grande sensibilità può recepire appieno cosa significhi allargando empaticamente la propria sfera valoriale.

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