LA DEMOCRAZIA CHE NON C’È

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di ANTONIO SPOSITO

“La democrazia è il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”.
La citazione è di Abramo Lincoln, uno dei padri della democrazia americana, pronunciata nel discorso del 19 novembre 1863 a Gettysburg, durante la guerra di secessione americana.

Il titolo dell’articolo è lo stesso del libro di Paul Ginsborg (storico di origine inglese), che induce a porsi domande critiche sulle sorti delle democrazie liberali occidentali, quali: “È ancora appropriata la “democrazia rappresentativa” sempre più lontana dai cittadini”? Si può immaginare un nuovo modello di “democrazia rappresentativa” che allo stesso tempo sia maggiormente partecipativa? È possibile, a fronte delle evidenti disuguaglianze sociali, realizzare forme di “democrazia economica” che prevedono una più equa distribuzione della ricchezza prodotta, meglio definibile come socialismo, inteso come organizzazione collettiva non necessariamente partitica?

La democrazia è per sua natura un sistema politico instabile e fragile, connotato da un “pensiero leggero” non ideologico, caratterizzato – dopo la sbornia e l’esaltazione vissute nel secondo dopoguerra – da un declino di gradiente variabile a seconda dei Paesi esaminati.
Gli indicatori di tale declino sono dati dalla scarsa fiducia riposta nelle istituzioni, dal calo dell’affluenza alle urne nella fase elettorale, dalla diminuzione degli iscritti ai partiti, dal ritiro dei cittadini dalla politica e dalla sfera pubblica, propensi al consumismo e ripiegati nella propria vita privata.

Una “democrazia rappresentativa” pone il problema della formazione del consenso, espresso da cittadini che si avvertono illusoriamente liberi soltanto perché gli è concesso di votare.
Nella società postmoderna “liquida” la politica è divenuta sempre più “ancilla” del “capitalismo finanziario”, il quale detta l’agenda a governi che ne accettano le logiche antisociali.
E’ indispensabile, quindi, ricomporre l’avvenuta frattura tra diritti, economia, politica e società. In tale direzione, l’intreccio tra “democrazia rappresentativa” e “democrazia partecipata” può essere seminale per affrontare questioni d’interesse pubblico, tra cui le inaccettabili disuguaglianze tra esseri umani.

Prabhat Ranjan Sarkar

Nel tentativo di superare o attenuare le disuguaglianze sociali occorre spingersi oltre il “pensiero unico” dell’economia liberista, prendendo in considerazione il modello di “democrazia economica” proposta dal PROUT (PROgressive Utilization Theory o Socialismo Progressista) – il cui fautore è il filosofo indiano Prabhat Ranjan Sarkar – come uno delle forme associative maggiormente eque e partecipate, che mira al benessere collettivo più che a quello privilegiato di singoli individui o di gruppi dominanti.

Pur non tralasciando la meritocrazia individuale, il PROUT è contro i trust economici e il capitalismo di stato. Esso si fonda sulla cooperazione coordinata, sull’impiego razionale delle risorse eliminando gli sprechi, si oppone al consumismo sfrenato, usa forme d’energia pulita, realizza trasformazioni industriali che riducano i costi sociali.
Secondo il PROUT, i cittadini hanno diritto sia ad uno status socio-economico dignitoso con possibilità di migliorarlo, sia alla autodeterminazione territoriale, ossia, alla sovranità economica delle aree o regioni in cui vivono, realizzando un modello di Stato federale non centralizzato.

Solo una concezione negoziata del rapporto tra governanti e cittadini protegge la democrazia dai suoi stessi eccessi, cioè, dalle derive sia elitarie sia populiste. Si tratta di una “democrazia partecipata” che esce dai palazzi del potere ed entra nella cultura di cittadini che vogliono essere all’altezza del momento storico e delle mutazioni socio-antropologiche che stanno attraversando.

Per rendere una democrazia realmente partecipativa è necessario ricostruire una volontà politica proveniente dal “basso” attraverso un processo bottom up. Un “basso” organizzato in organismi definiti “corpi intermedi”, i quali – nonostante la crisi attraversata negli ultimi anni – rappresentano il mondo della cooperazione civile che deve controllare e limitare le elite e le lobby che difendono interessi particolaristici.
Questo è il nucleo del problema che da sempre affligge le democrazie liberali.

È necessario, quindi, per limitare il vecchio e il “neo-liberismo”, che le voci della cooperazione civile si ergano a protagoniste nel tutelare la giustizia sociale e i diritti previsti dalle carte costituzionali in termini di sussidiarietà, solidarietà, prevenzione e assistenza. Voci non subalterne alla astratta logica del “pareggio di bilancio”, pur non eccependo sul doveroso rispetto del rigore economico riguardante gli sprechi.

La politica prodotta dai movimenti cooperativi acquisisce potere reale su alcune specifiche materie, contrattando con le autorità centrali questioni dirimenti come, lo è, ad esempio, quella di un Welfare sempre più negato.

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